Tra le maggiori ‘grandi opere’ che le nazioni dovranno affrontare entro la prima metà di questo secolo c’è l’integrale conversione energetica del sistema produttivo, per passare dalle risorse di energia non rinnovabili (petrolio, carbone, gas naturale e nucleare) a quelle totalmente rinnovabili (solare, eolico, geotermico, idroelettrico). La conversione energetica è una questione di sicurezza nazionale e di sopravvivenza della specie. Le principali risorse non rinnovabili si esauriranno molto prima della fine del secolo, ma il problema non si manifesterà quando le risorse saranno completamente finite. Bisogna forse attendersi una rivoluzione solo dopo che il 100% degli statunitensi non potrà più permettersi l’elettricità in casa? O forse grandi disordini incominceranno quando fette anche minoritarie ma sostanziose della popolazione non potranno più accedere all’energia? Ma la vera sfida poi non è nemmeno sul versante dei consumi finali di energia; la maggior parte dell’energia, infatti, è oggi impiegata nei processi produttivi: trebbiatrici, trattori, camion, treni, aerei, macchine industriali e computer, tutto è prodotto per mezzo dell’energia. Se l’energia venisse a mancare troppo repentinamente, le moderne economie industrializzate sarebbero costrette a ritornare a livelli di produzione pre-industriale. Già oggi si conta che l’energia utilizzata per la produzione equivarrebbe al lavoro ininterrotto, 24 ore su 24, di 24 miliardi di schiavi[1]. Se non fossimo abbastanza lungimiranti ma facessimo l’errore di ragione solo in un’ottica di breve periodo, potremmo trovarci nella situazione di dover convertire l’intero sistema industriale in pochi anni ma al contempo non avere la risorse tecniche, culturali e politiche per farlo in così poco tempo. Il risultato sarebbe un’ecatombe spaventosa di vite. L’attuale livello di popolazione mondiale, infatti, non sarebbe sostenibile se si tornasse a coltivare i campi con la vanga, la falce e l’aratro di ferro. La nostra vita pertanto dipende letteralmente dal petrolio e il petrolio sta finendo. Lasciare alle sole mani del libero mercato questa sfida esistenziale senza affrontarla con un piano strategico, rischia di portare intere nazioni e popoli all’auto-genocidio, nonché a disordini impensabili e a imprevedibili scenari migratori verso le nazioni che sono state più lungimiranti.
L’obiettivo finale delle politiche energetiche di qualsiasi paese dovrebbe essere la piena conversione energetica del sistema produttivo, ovvero l’utilizzo di energie rinnovabili nel 100% dei processi produttivi e di consumo. Qualsiasi piano che si limiti a ridurre la dipendenza da energie non rinnovabili su scale temporali secolari è del tutto irrealistico perché le fonti di energie non rinnovabili, se usate agli attuali tassi, si esauriranno entro il 2050[2]. L’obiettivo finale non può essere ridurre, bensì sostituire integralmente le fonti di energia non rinnovabili.
Il secondo obiettivo di una sana politica energetica dovrebbe essere il conseguimento della piena autosufficienza energetica. Autosufficienza energetica significa maggiore indipendenza geopolitica e quindi maggiore autodeterminazione popolare. Paesi che dipendono da altre nazioni per il proprio approvvigionamento di energia, finiscono con l’essere costrette a seguire quei paesi nelle loro avventure neo-coloniali, ad accettare i loro ricatti commerciali o a dover indulgere in alleanze con stati totalitari o semi-feudali come le monarchie feudali saudite con lui l’Occidente dei diritti umani è legato a doppio filo.
Questi due obiettivi, la sostituzione integrale delle energie rinnovabili e l’autosufficienza energetica, sono strettamente legati tra loro. Le energie rinnovabili, infatti, sono molto più radicate al locale rispetto agli idrocarburi: mentre il sole il vento e l’acqua corrente sono presenti in tutti i paesi, e quindi ciascun paese può sfruttare le proprie risorse senza entrare in competizione con gli altri, il petrolio, il carbone e il gas naturale sono distribuiti in modo disomogeneo sulla superficie della Terra e questo causa tensioni geopolitiche continue. Passare alle rinnovabili ridurrebbe quindi, come effetto indiretto, anche molti dei conflitti attualmente in corso tra diversi paesi. Tuttavia, bisogna essere concreti e strategici: entrambi gli obiettivi non potranno essere ottenuti nel giro di due o tre anni. Il processo dovrà essere per forza di cose graduale, se non altro perché la piena riconversione energetica di tutto il processo produttivo di un paese richiede dei tempi minimi rappresentati dalla ricerca scientifica, dalla costruzione delle infrastrutture necessarie e dalla realizzazione di macchinari industriali, agricoli e tecnologici alimentabili da energie rinnovabili. Siccome si tratta di una transizione, nel tempo della transizione utilizzeremo ancora le fonti di energia non rinnovabili, ma con la sostanziale differenza che esse diventano strumentali alla conversione. È con il petrolio, il carbone e il gas che alimenteremo le macchine con cui costruire nuove apparecchiature e infrastrutture adatte a sfruttare le energie rinnovabili. Mano, mano che procederemo nella transizione vedremo ridursi sempre di più l’impiego delle non rinnovabili utilizzando sempre di più le rinnovabili anche per portare avanti il processo stesso della transizione energetica.
Al fine di individuare una strategia politica per gestire la transizione alle rinnovabili e all’autosufficienza energetica, è cruciale studiare come si sta muovendo il paese che in questo momento è all’avanguardia sul tema della conversine energetica. A livello mondiale il paese che più si sta impegnando in questa direzione, per investimenti e per ampiezza industriale e territoriale, è la Cina. Dopo l’uscita unilaterale dagli accordi di Parigi degli Stati Uniti, che continuano a puntare sul gas naturale da fracking, sul carbone e sul petrolio da scisti bituminose, la Cina ha assunto il monopolio di guida mondiale sulle problematiche ambientali. In realtà è da tempo che la Cina ha fatto la sua scelta strategica in favore delle rinnovabili. Risale. infatti, al 1997 il suo primo piano ultradecennale di “ristrutturazione energetica”; si tratta di un programma suddiviso in 4 fasi, che si concluderà nel 2020[3]. Il governo cinese avrà investito per allora, ben 360 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili, con la creazione di 13 milioni di nuovi posti di lavoro.
Ad oggi il 58% dell’energia cinese è fornita dal carbone di cui la Cina è grande esportatrice mentre importa petrolio di cui è sprovvista[4]. Negli ultimi anni ha aumentato i suoi investimenti sul gas naturale di gran lunga meno inquinante del carbone avendo programmato per il 2020 di portarlo al 10% del totale del fabbisogno di energia[5]. In realtà però, i veri progressi si sono fatti proprio sul versante delle rinnovabili. La Cina possiede quasi 1/6 delle risorse idroelettriche sfruttabili del mondo per ben 5920kWh all’anno. In Cina ci sono poi 2700 sorgenti termali che potrebbe sfruttare. Dal 2010 la Cina è il principale paese di turbine eoliche nel mondo, sfruttando una enorme capacità energetica di tipo eolico che ha sul proprio territorio[6]. Dal 2015 è diventata il principale produttore al mondo di energia solare. L’11% dell’energia utilizzata dalla Cina è pulita, ma si prevede che la percentuale salga al 20% il 2030[7]. Nel solo 2016 ha installato impianti per 18 GW di turbine eoliche e ben 34 GW di fotovoltaico, in pratica la potenza fotovoltaica tedesca, aggiunta ai 43 GW già esistenti[8].
Secondo il centro studi governativo cinese, l’ Energy Research Institute della National Development and Reform Commission, in un nuovo studio, dal titolo “China 2050 High Renewable Energy Penetration Scenario and Roadmap Study”, realizzato in collaborazione con il think tank Energy Foundation China, la Cina può ribaltare completamente il proprio sistema energetico entro metà secolo, arrivando a coprire l’86% del suo fabbisogno elettrico con le sole rinnovabili e ben il 60% di tutto il suo consumo energetico, con notevoli benefici economici[1]. La Cina sta quindi programmando a lungo termine ed è impressionante lo sviluppo previsto delle rinnovabili: al 2050 si parla di 2.400 GW di potenza cumulata da eolico e 2.700 GW da fotovoltaico (ora siamo a 180 GW di FV cumulato a livello mondiale). Sole e vento assieme darebbero il 64% dell’elettricità cinese. Il grosso delle installazioni è previsto per gli anni che vanno dal 2020 al 2040, quando il calo dei prezzi permetterà di installare 100 GW di potenza l’anno per ciascuna delle due fonti.
Uno scenario simile è confermato da un altro report ufficiale cinese, il China Renewable Energy Outlook 2017, secondo cui le fonti non-fossili (rinnovabili, nucleare, biomasse) nel 2050 potrebbero valere oltre il 60% del mix nello scenario più avanzato, in linea con il traguardo di limitare il surriscaldamento globale sotto i 2 gradi[1].
[1] “China Renewable Energy Outlook 2017”, China National Renewable Energy Centre (CNREC), 26 febbraio 2018.
[1] “China 2050 High Renewable Energy Penetration Scenario and Roadmap Study”, Energy Research Institute, Aprile 2015.
[1] BBC.“A farm for the future”. Documentario, 2009.
[2] WTRG economics, 2014; “Il gas naturale”, Una speranza per la Terra, 28 marzo 2008; Kevin Anderson e Alice Bows-Larkin, “Beyond Dangerous Climate Change: Emission Scenarios for a New World”, Philosophical Transactions of the Royal Society A, n.369, 2011.
[3] James P. Dorian, David Fridley, “China’s Energy and mineral industries: current perspectives”, Westview Press, 1998.
[4] “La Cina delle rinnovabili contro carbone spiegata in cinque grafici”, QualEnergia.it, 12 dicembre 2017.
[5] Ibidem.
[6] Ibid.
[7] Elisabetta Scuri, “Come La Cina ha superato gli Stati uniti nel campo dell’energia rinnovabile”, 24 gennaio 2018.
[8] “Anatomia della trasformazione cinese”, QualEnergia.it, 21 marzo 2017.